19 apr 2015

Due chiacchiere con Nadia Terranova

«Nel 1992 avevo quattordici anni, la Lega Nord faceva il suo chiassoso ingresso in politica e nella mia libreria di riferimento comparve un manifesto dove c’erano Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino che rispondevano con un bicchiere di vino: “i terroni, pur di non lavorare, scrivono”. Quando sono diventata grande li ho presi in parola». Così si presenta Nadia Terranova sul suo blog, che si chiama appunto I siciliani pur di non lavorare scrivono. Noi abbiamo intercettato la giovane scrittrice di origine messinese (ma, si può dire, romana di adozione) in occasione di un suo intervento radiofonico nella trasmissione Scarpette rosse, in una puntata dedicata alle Mille e una notte. Abbiamo allora voluto approfittarne e fare "Due chiacchiere" con lei per la nosta rubrica.


Nadia Terranova ha una particolarità come scrittrice: scrive sia per adulti (è ora in lancio il suo romanzo Gli anni al contrario, Einaudi 2015), sia per bambini e ragazzi. Sapendo bene che non esistono "formule" per la scrittura rivolta a un lettore bambino, vogliamo chiederti qualcosa su questo particolare aspetto del tuo lavoro. Cosa si scopre della scrittura e della narrazione quando si scrive per un occhio, un orecchio e un cuore "bambino"? Ci viene in mente la filastrocca di Rodari sull'uomo maturo con un orecchio acerbo, un uomo, cioé, che è riuscito a conservare un'attenzione "bambina" alla realtà...
Nel mio romanzo Gli anni al contrario dico che "i grandi non sono che bambini sopravvissuti". Forse ciò è particolarmente adatto per quel romanzo, che parla di adulti fragili, esposti agli urti della vita - ma in genere credo che sia vero per chiunque. Silvina Ocampo diceva che "sopravvivere all'infanzia è una dura prova per la ragione", ed è vero. Uscire da una dimensione mitologica, in cui diamo delle risposte fiabesche a dilemmi universali, è doloroso ma necessario. Tornare grandi per recuperarla lo è altrettanto. Scrivere significa sempre prestare orecchio a una storia, e la scrittura per bambini permette un ascolto limpido, privo di inutile sfoggio stilistico. Questa scelta non significa povertà di linguaggio, ma rimanda a quell'essenzialità e quella precisione che sono proprie della lingua poetica. 

Le mille e una notte raccontate da Nadia Terranova e illustrate da Chistopher Corr (La NuovaFrontiera Junior, 2013): come nasce questa opera?
Sono partita dalle illustrazioni di Corr, su richiesta dell'editore, e ho lavorato su fiabe già stabilite. Le immagini erano molto ricche e festose e ho cercato di rispettarle il più possibile, ovviamente senza didascalizzarle. Ho cercato l'origine di ciascuna e poi mi sono abbandonata alla libertà della reinterpretazione, come se stessi aggiungendo la mia versione alla tradizione orale, e quindi mutevole per sua natura.



Cosa hai scoperto nelle Mille e una notte? Quali elementi familiari hai incontrato, evocativi di un immaginario fiabesco che faceva già parte, per altri canali, della tua esperienza della fiaba e quali elementi invece ti hanno sorpresa, portata lontano, magari stimolando la fantasia e il gusto dello straniamento? Ci parlavi, ad esempio, della figura del "bazar", figura insieme straniante e "tipica", una sorta di "bosco" in altra forma...
Già: mi ha colpito l'affollamento. Le fiabe della nostra tradizione sono agite da individui perlopiù soli: orfani, vedove, figli unici o figli allontanati dai fratelli... Il paese, il popolo, sono elementi sullo sfondo. Invece nel mondo arabo la folla e il vociare sono a tutti gli effetti protagonisti. Non è solo un cambio di cornice, è proprio il viaggio dell'eroe che diventa diverso, più disturbato. Questo aspetto l'ho trovato molto contemporaneo. 

Ci racconti la tua cornice delle Mille e una notte, la fiaba di Sharazad così come l'hai voluta raccontare tu? Chi è Sharazad per Nadia Terranova?
Una donna che si salva raccontando, un'ammaliatrice, una persona intelligente che conosce il potere ipnotico della narrazione.

Una questione sul tema dell'adattamento per ragazzi di un'opera non nata per loro ma - come dice Rodari parlando in generale delle fiabe - arrivata a loro come "un grande relitto, solo in tempi recenti lasciato in eredità ai bambini". In particolare per il loro elemento erotico e il loro elemento violento, Le mille e una notte si presta bene a esempio di quei luoghi letterari (o del folklore, letterario e non) che suscitano "le grandi domande" - e anche, a ben vedere, "le grandi paure" - dell'adulto davanti alle fiabe (sul tuo blog segnali una bellissima riflessione di Natalia Ginzburg in merito). Ci racconti come hai deciso di maneggiare questi aspetti dell'opera che hai "adattato" alla fruizione dei bambini?
Ho deciso di non edulcorare nulla, perché so che i dettagli truculenti, nelle fiabe, servono a liberare la paura e le risate, ed è fondamentale. Sono gli adulti ad averne paura, perché non riconoscono più alla fiaba il potere simbolico che invece ha, perché confondono letteratura e cronaca, perché hanno paura di loro stessi.

Veniamo dunque ai bambini. Hai avuto la possibilità, ci dicevi, di osservare il frutto del tuo lavoro che, al di là del bel libro che ho qui tra le mani, è, infondo, ciò che i bambini restituiscono allo scrittore. E glielo restituiscono forte e chiaro: quando si tratta di gustare e appassionarsi a qualcosa - si tratti d'un gioco o d'una lettura - a differenza dell'influenzabilissimo giudizio degli adulti, non c'è moda o pregiudizio che tenga. Vuoi raccontarci qualche aneddoto?
Quando ho scritto "Bruno il bambino che imparò a volare" (Orecchio Acerbo) non avevo pensato che la sparizione del protagonista (Bruno Schulz) e quella del padre (Jakob) fossero legate; è stato un bambino a farmelo notare, interpretando la fiaba così: il padre torna a salvare il figlio. Bellissimo, no? Probabilmente questa idea stava nel mio inconscio, l'avevo scritta ma non lo sapevo: serviva lo sguardo di un bambino vero per dirmela così limpidamente.


Cora Presezzi

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