Nella tradizione folklorica europea e italiana la festa di San Martino, che si celebra l’11 novembre, rappresenta un momento di passaggio stagionale, una data spartiacque in cui un tempo si rinnovavano i contratti agrari oppure si traslocava, dunque un “tempo fuori dal tempo”- festivo, caotico, orgiastico - un Capodanno contadino, collegato al Samain celtico, in cui lo stesso Santo assume le sembianze e le funzioni propiziatorie della Grande Madre, ripresentandosi ciclicamente, nei momenti critici del rinnovamento temporale, portatore - come una Befana - di doni per i buoni bambini o di una frusta ammonitrice, detta in Francia Martin bâton o martinet, per quelli più capricciosi. Le usanze e il culto di San Martino hanno infatti origini galliche, poiché dopo la sua morte, avvenuta l’8 novembre a Candes, il corpo del santo venne ricondotto, l’11 novembre, a Tours, dove si celebrarono le esequie dinnanzi a una gran folla:
La Francia, come d’altronde la Spagna e l’Irlanda, era popolata dai Celti che celebravano il Capodanno ai primi di novembre. E, tra le festività di quel periodo, fu proprio San Martino ad acquisire sotto il cristianesimo la funzione di Capodanno contadino meglio del primo novembre perché il vescovo di Tours fu nell’Alto Medioevo il santo più popolare d’Occidente e la sua festa era quindi la più adatta per cristianizzare le tradizioni celtiche di quel periodo che, segnando il passaggio dal vecchio al nuovo anno, durava dodici giorni. (A. Cattabiani, Lunario, p. 364)
La straordinaria popolarità del Santo deriva da innumerevoli racconti di episodi straordinari e leggende che sulla sua figura si diffondevano nel Medioevo. Si narrava che un giorno, celebrando la messa, un globo di fuoco si fosse posato sul suo capo oppure che, durante un viaggio verso Roma, egli dovette punire un orso bruno che si era avventato sul suo asino, obbligandolo a portare i suoi bagagli fino a destinazione. Si diceva inoltre che avesse sempre sconfitto il diavolo tentatore e che spesso lo avesse anche burlato. In proposito il raccoglitore palermitano Giuseppe Pitrè riporta fra le sue testimonianze delle tradizioni collegate alle feste e agli spettacoli in Sicilia una leggenda popolare locale:
San Martino, uomo pieno di carità cristiana non cessava mai dal far limosina ai poverelli anche quando ci dovesse rimetter la sua camicia. Una volta il diavolo gli si presentò in forma di povero che si moriva di fame, e gli chiese la carità; ma S. Martino, che non avea neppure un quattrino in tasca, lo rimandò. Il diavolo, sempre inflingendosi, tornò a chiedere, e tanto chiese, pregò e supplicò che il Santo togliendosi d’addosso il mantello glielo diede. Il diavolo, lieto della burla, gli si svelò; ma San Martino non si scompose; che anzi con la maggior calma del mondo gli disse: ‘Io t’avea creduto un povero, e ti avevo dato la roba mia; adesso che ti conosco, ti caccio via da me, brutta bestia! Và nei profondi dell’inferno!’. (G. Pitrè, Spettacoli e feste, p. 410)
Tali storielline si innestano tutte sull’episodio cristiano/leggendario più popolare della vita di Martino, che spiegherebbe come d’altra parte questo santo esemplare, «non più di tanti altri» - sostiene Alfredo Cattabiani - abbia goduto di così larga fama. Si sta parlando della celebre leggenda della cappa:
Figlio di un militare, Martino aveva già la carriera tracciata: nel 332, a quindici anni, secondo le disposizioni degli imperatori Severo e Probo, era entrato nell’esercito diventando circitor, il cui compito consisteva nella ronda notturna a cavallo per sorvegliare le guarnigioni. Una notte incontrò sulla porta della città di Amiens, nella Gallia, un povero tremante di freddo che chiedeva aiuto. Che fare? Non aveva nient’altro che la clamide di cui si era vestito perché aveva sacrificato tutti i denari in un’altra opera di carità. Allora, brandita la spada che aveva alla cintura, divise la clamide a metà e ne donò al povero la parte inferiore. La notte seguente, mentre stava dormendo, vide il Cristo che, vestito di una parte del suo mantello, diceva agli angeli intorno a lui: «Martino, il quale è soltanto un catecumeno, mi ha coperto con la sua veste». (A. Cattabiani, Lunario, pp. 364-365)
Ebbene, il santo del mantello si trovò così a sostituire l’amatissimo «dio cavaliere» della religione pagana, il quale portava una mantellina corta, e con la celebrazione della sua festa “cristiana” assunse anche le funzioni dell’antico cavaliere, permettendo di riconoscere nella tradizione a lui legata i tratti dell’antico sostrato celtico che vi soggiaceva. La stessa collocazione calendariale dei festeggiamenti conferma tali reciproche interferenze. Pur cambiando nell’iconografia - il suo cavallo da nero diviene bianco e Martino combatte e spesso vince il diavolo -, il Santo resta ancora il cavaliere del mondo infero, colui che trionfa sulla morte, un dio della vegetazione che supera la morte attraverso la morte, rappresentando dunque «il garante del rinnovamento della natura dopo la morte invernale».
A loro volta i cibi caratteristici che troneggiano al banchetto della festa di San Martino sono collegati ai morti, che riaffiorano nel mondo dei vivi nei periodi di “capodanno”. Fra questi vi sono dei frutti stagionali come le castagne, che - riferisce Cattabiani - ancora adesso a Marsiglia si nascondono in questa notte sotto il cuscino, per evitare che gli spiriti dei morti vengano a tirare il malcapitato per i piedi.
Altro dato interessante del rapporto strettissimo che collega la figura leggendaria del santo con l’antica religione celtica è l’animale attributo per eccellenza di San Martino, ovvero l’oca, della cui carne ci si ciba proprio in questi giorni di festa.
L’estetica e la gastronomia del San Martino si spiegano con due leggende. La prima narra che quando San Martino venne eletto per acclamazione vescovo di Tours, nel 371, si nascose nella campagna perché voleva continuare la sua vita monacale, ma fu rivelato dalle strida di uno stormo di oche. La seconda racconta che un giorno San Martino vide lungo un fiume degli uccelli pescatori inseguire una preda, cosicché spiegò ai suoi compagni che questi uccelli erano un’immagine di Satana, il persecutore delle anime, e li obbligò a ritirarsi in terre lontane. Tali creature furono riconosciute nella tradizione come oche. Tuttavia - nota Alfredo Cattabiani - non è un caso che al santo novembrino si affianchi proprio un’oca, la quale era sacra ai Celti come simbolo del «messaggero dell’Altro mondo» e guida dei pellegrini, un’immagine, dunque, della Grande Madre dell’universo e dei viventi.
Eco di tale credenza è rimasta nel gioco di origine celtica, il gioco dell’oca, che si compone di un percorso, il ciclo vitale, di varie caselle - simboliche tappe “iniziatiche” -, il cui centro è occupato proprio dall’immagine di questo animale, rappresentazione della meta finale di un destino “giocato” a dadi.
Infine, l’11 novembre il vino novello è pronto - «A San Martino ogni mosto diventa vino» - e può, anzi deve, accompagnare il clima orgiastico della festa, poiché la baldoria è prescritta in queste occasioni dai proverbi popolari stessi: «Chi non gioca a Natale, chi non balla a Carnevale, chi non beve a San Martino è un amico malandrino». Ecco perché in Piemonte ancora si recita: «Oca, castagne e vin, tent tût pe’ San Martin».
Marlisa Spiti
Bibliografia:
Baldini E. - Bellosi G., Halloween. Nei giorni che i morti ritornano, Einaudi, Torino 2006.
Cattabiani A., Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i ritmi dell’anno, Mondadori, Milano 2003.
Cattabiani A., Lunario Dodici mesi di miti, feste, leggende e tradizioni popolari d’Italia, Mondadori, Milano 2015.
Pitrè G., Spettacoli e feste popolari siciliane descritte da Giuseppe Pitrè, volume unico, L. Pedone Lauriel, Palermo 1881.
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