8 nov 2017

L'infanzia secondo Gianni Rodari

Per affrontare il tema - immenso - dell'infanzia nelle riflessioni teoriche e nella poetica di Gianni Rodari, è utile partire da un piccolo inquadramento biografico, dato il forte intreccio che, nella sua opera, si dà tra elementi di natura biografica e ideologica e il piano più propriamente creativo e autoriale.

Gianni Rodari nasce in Piemonte nel 1920. Ha quindi circa trent’anni quando lo troviamo - nei primi anni Cinquanta - a scrivere su vari quotidiani e, contemporaneamente, a scrivere racconti, novelle, filastrocche e favole. Schematicamente ecco quanto accaduto fin lì: dopo la morte del padre - il fornaio Giuseppe, spesso menzionato nelle sue opere - Rodari si trasferisce a Gavirate, nella provincia di Varese, abbandona il seminario e i progetti di formazione ecclesiastica che aveva per lui scelto sua madre e, dopo essersi diplomato alle scuole magistrali e aver abbandonato l’università, inizia a lavorare come maestro. Durante la guerra avviene una svolta destinata a segnare profondamente l'orientamento ideologico di Rodari: dapprima esonerato, poi richiamato a Salò (1943), nel 1944 si avvicina alla resistenza e vive in clandestinità fino alla liberazione, iscrivendosi infine, il primo maggio del 1944, al PCI.

Rodari inizia allora a scrivere per periodici di partito e nel 1947 approda all’Unità, a Milano, e dal 1949 cura La domenica dei piccoli. Nel 1950 è a Roma ed è questo il suo periodo al Pioniere, dove pubblica il suo primo manuale pedagogico, a causa del quale viene messo al bando dal Vaticano, che definisce i suoi scritti diabolici e Rodari un «ex-seminarista cattolico divenuto un diavolo rivoluzionario». Nel frattempo, le sue collaborazioni come giornalista si moltiplicano: Avanguardia (FGCI), Paese sera, Rai (dove si cimenta in una collaborazione con il programma per bambini Giocagiò).

La pubblicazione con Einaudi, nel 1960, della raccolta Filastrocche in cielo e terra lo consacra al successo in Italia, dove fino a quel momento era tendenzialmente osteggiato e temuto. (Mentre era molto popolare in URSS, dove Rodari andò spesso: per dare la misura della sua popolarità si può ricordare che Cipollino, un suo personaggio, era tanto famoso e amato da diventare soggetto per giocattoli, francobolli, un cartone animato...).


Nel periodo in cui pubblica narrazioni per l’infanzia su quotidiani politici, Rodari si interroga molto sul rapporto tra ideologia, educazione e narrazione (come luogo di proposta di forme e contenuti educativi), e sui destinatari del suo lavoro, iniziando così a esplorare a fondo - teoreticamente e anche praticamente - la categoria di infanzia. Al riguardo, dice ad esempio: «scrivevo per bambini che avevano in mano un quotidiano politico. Era d’obbligo parlare loro del mondo, non di un mini-mondo di convenzione», manifestando, dunque, un’insoddisfazione rispetto a certi clichés della letteratura pedagogica e anche un’urgenza di sottoporre ai bambini narrazioni che parlassero loro del mondo: di un mondo fatto di piccole e grandi cose, semplici e complesse, di passioni e di contraddizioni. Come scrive Donatella Ziliotto - in Cento libri per navigare nel mare della letteratura per ragazzi (Salani, 1999) - rapidamente il fuoco dell'attenzione di Rodari si sposta da quei bambini a tutti i bambini, fino alla definizione di due aspetti, quasi due principi generali, o idee regolative.
Il primo è questo: «i bambini fanno libero uso del mondo per i loro scopi di bambini» e dunque l’impegno di Rodari, nella pratica e nella divulgazione, è far sì che questa diversità di scopi non sia ignorata («per l’adulto un orologio è solo un orologio, per il bambino è anche uno strumento per scavare buche nella sabbia, ad esempio»). Il secondo principio generale è quello che, parafrasando Gramsci, Rodari chiama «ottimismo della specie»: inizia cioè a pensare, attraverso la sua interrogazione su cosa e come scrivere per l’infanzia, al fatto che «la società infantile» rappresenti per «la società adulta» una risorsa e una possibilità di esercizio dialettico, e non un residuo passivo da avviare, il più rapidamente possibile, all’ingresso nella gabbia delle convenzioni e delle contraddizioni naturalizzate e neutralizzate su cui si fondano le tacite regole della società.

Ed è in questo senso che Rodari inizia a prender insistentemente parola sulla scuola. Nel saggio Scuola di fantasia (1974)* parlando del ruolo del bambino nella scuola (per Rodari scuola e società sono l’una lo specchio dell’altra), dà anche una chiave di lettura generale di Grammatica della fantasia (1973) libro dedicato, come dice il sottotitolo, all’arte di inventare storie. E scrive:
Grammatica della fantasia offre strumenti per contribuire a creare nella scuola, un nuovo ruolo per il bambino, un ruolo di bambino creatore, produttore, ricercatore, invece del tradizionale ruolo passivo che il bambino ha sempre avuto nella scuola.
Per ottenere questo «nuovo ruolo» sarà necessaria un'attitudine che potremmo definire “anti-metafisica”, ovvero in dialogo con la materialità e la concretezza delle situazioni reali: «il concreto, nell’educazione, è il bambino, non il progetto educativo, non il programma scolastico, non la didattica in sé», spiega infatti Rodari. E a questa attitudine concreta, contro le astrazioni e le formule, si affianca una messa in crisi delle funzioni e dell’univocità dei ruoli. Una messa in crisi in base alla quale, in ogni esperienza che coinvolge un bambino, l’adulto è chiamato a stare come individuo completo davanti a individuo completo, e non come ruolo davanti a ruolo: genitore-figlio, maestro-scolaro, autore-lettore e via dicendo.
D’altro canto, molto chiara per Rodari è la critica allo spontaneismo: non si tratta - scrive - di un «lasciar fare», ma di «provvedere a una complessiva educazione, anche la più difficile, quella cioè dei sentimenti e delle passioni». Un rapporto, quindi, in grado di produrre “autonomia”, cosa ben diversa dallo spontaneismo. Certo, aggiunge, per la società adulta è un compito estenuante:
...che richiede di rinnovare continuamente il modello, interpretando sempre di nuovo le esigenze, i suggerimenti diretti o indiretti, la cultura spontanea, i bisogni di quei dati bambini, di quel dato bambino, in quell’anno, quel giorno. Una fatica terribile, ma la sola necessaria... Si può esser utili al bambino solo se si è pronti a rinnovarsi continuamente, ad adattarsi alla sua crescita, a mettere in discussione il proprio bagaglio culturale e tecnico, la propria idea del mondo... In un’impresa educativa il programma non dovrebbe essere l’elenco delle cose che ci proponiamo di ottenere dai bambini, ma quelle che dobbiamo fare noi per essere utili ai bambini.
Rodari si chiede quindi come si possa far un buon uso delle proprie idee ed esperienze senza trasmettere contenuti pre-costituiti, senza cioè usare il divario di esperienza (e di forza e di autorità) contro i bambini, in altre parole come mettere le proprie esperienze al servizio del bambino anziché renderlo un consumatore di idee «già cotte». Rodari arriva infatti a definire la scuola «un riformatorio a ore», laddove svolga la sola funzione sociale di impartire un sapere preconfezionato e di proporre un’emulazione della lingua del consenso, espungendo linguaggi e intuizioni non previsti. Il contrario di questo atteggiamento è esposto in un paragrafo, il settimo, di Grammatica della fantasia, che riassume il tutto in un’immagine: «Il nonno di Lenin» racconta in una metafora come nella casa di campagna del nonno di Lenin, appunto, i ragazzini usassero entrare e uscire da una finestra del soggiorno che dava sul giardino:
La casa di campagna del nonno di Lenin sorge, non lontano da Kazan - capitale della Repubblica autonoma dei tartari - un po' in cima a una collinetta ai piedi della quale scorre, portando a spasso le sue anatre, un fiumiciattolo colcosiano... Una parte del soggiorno dà sul giardino con tre grandi finestre. I ragazzi, tra i quali Volodia Ul'janov, il futuro Lenin, entravano e uscivano di casa per le finestre, anziché per la porta. Il saggio dottor Blank (padre della madre di Lenin), ben guardandosi di proibire quell'innocente spasso, fece mettere sotto le finestre delle robuste panchette, perché i ragazzi se ne potessero servire nei loro andirivieni senza rischiare di rompersi l'osso del collo. A me sembra un modo esemplare d mettersi al servizio dell'immagnazione infantile. Con le storie e i procedimenti fantastici per produrle, noi aiutiamo i bambini a entrare nella realtà dalla finestra, anziché dalla porta. E' più divertente: dunque più utile.
Rodari si sposta quindi ad affrontare il rapporto tra uso dell'immaginazione infantile e uso dell'immaginazione in generale - e il suo crescere alla scuola delle ipotesi - e insiste sulle modalità di risposta al bisogno di crescere dei bambini che si manifesta nel bisogno di misurarsi con i temi i più seri.
Niente impedisce, del resto, di provocare l'impatto con la realtà per mezzo di ipotesi più impegnative. Esempio: Che cosa succederebbe se in tutto il mondo da un polo all'altro da un momento all'altro sparisse il denaro? Questo non è soltanto un tema per l'immaginazione infantile. Perciò appunto penso che sia un tema particolarmente adatto ai bambini, ai quali piace misurarsi con problemi più grandi di loro. E' il solo modo che hanno a disposizione per crescere. E non vi sono dubbi che essi vogliano, prima di tutto, e sopra tutto il resto, crescere. Il diritto di crescere in effetti noi glielo riconosciamo solo a parole. Ogni volta che lo prendono sul serio, ci giochiamo tutta la nostra autorità per vietargliene l'uso.
Nella metafora che Rodari suggerisce resta fondamentale l’obiettivo: che è il contatto con la realtà anzi, di più, l’ingresso e la ricerca di modalità di azione sulla e nella realtà, la ricerca e la scoperta di modi non univoci di entrarvi "dalla finestra", in modo creativo e non passivo o automatico. La questione si riallaccia a un altro discorso, che ha di nuovo a che fare con quel cortocircuito tra modello educativo in generale e scolarizzazione. Una domanda che Rodari invita ripetutamente a porsi: «Perché imparare piangendo ciò che si può imparare ridendo?». E non si stancherà mai di ribadire che nell’imparare, la fantasia e l’immaginazione (che sono ben altro dalla fantasticheria, dalla fuga dalla realtà, ma sono piuttosto un modo di osservarla criticamente) devono dunque avere un ruolo, troppo spesso sacrificato alle ben più osannate (e ben meno temute) sorelle “attenzione” e “memoria”: le due virtù scolastiche per eccellenza.
Si tratta insomma di dare, sì, una grammatica, un insieme di regole flessibili e infinitamente combinabili, ma ricordando che i bambini «ne sanno una più della grammatica» - e questa è una ricchezza da valorizzare e non un male da reprimere. Non è un caso che questa bella immagine sui bambini che «ne sanno una più della grammatica» sia detta in riferimento all’uso dell’imperfetto ludico, ovvero al tempo del gioco e del c’era una volta delle fiabe. L'accostamento tra fiaba e gioco, che per Rodari hanno molto in comune, ci riporta a una questione che abbiamo già affrontato, ovvero al fatto che la fiaba stessa sia, per Rodari, un'importante occasione di crescita, in quanto luogo in cui è possibile contemplare le strutture fondamentali della fantasia. 



Cora Presezzi
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* Il saggio Scuola di fantasia è contenuto nell'omonima raccolta di scritti sparsi su temi pedagogici curata da C. De Luca e recentemente pubblicata da Einaudi: G. Rodari, A scuola di fantasia, Einaudi 2014, pp. 35-51.

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