Dopo una lunga pausa, riprende la nostra rubrica "Due chiacchiere" in cui, in modo diretto e informale, ci facciamo raccontare esperienze e riflessioni di chi lavora nell'ambito - ampio e variegato - della cultura e dell'arte rivolta all'infanzia. Oggi Fiona Sansone - autrice, regista, attrice e insegnante -ci racconta la sua esperienza di regista di teatro infanzia.
Iniziamo dal principio, come e quando hai iniziato questo lavoro?
Quando avevo otto anni ho fatto un sogno: parto da qui perché a distanza di quasi 28 anni (azzarderei dire un trentennio forse) osservando l’indietro, tutto si è svolto con una grande fluidità di intenti. Nel sogno, cioè nel mio corpo non fisico, ho visto una me che in una scatola nera (ai tempi morivo di paura al buio), come un mago disponeva cose, persone e luoghi su quella scena che era vera come una puntura di zanzara. Non mi piace parlare di passato, l’indietro invece è qualcosa che mantiene il suo movimento, la sua caduta o il suo atterraggio. Ho sempre avuto chiaro che il Teatro sarebbe stato il luogo del mio mestiere - e lo chiamo mestiere non lavoro-; dopo gli studi e le prime ipotesi di rappresentazione, gli incontri che formano una compagnia e quindi altro da te con cui co-creare una storia, è arrivata la prima regia, o meglio una co-regia: GalloSansone. Questa esperienza d’insieme mi ha fatto immergere nel tessuto cui ho sempre declinato la mia attenzione: il mito, la fiaba e la favola. Non credo che le “cose” s’iniziano, credo che nel tempo, ovvero in ciò che si apre come spazio, si possa fare tutto. E il mio tutto è il teatro, il teatro da quella parte di spazio in cui quasi nessuno rivolge lo sguardo a compimento dell’opera: la regia.
Piena di Vita - Ottavia Leone e Ksenija Martinovic - ph. Patrizia Chiatti |
La Trilogia della Misura è il pensare in grande quando l’intorno dice di arrestarti, fermarti, cambiare per lasciare. Invece io avevo bisogno di prendere le misure, di me evidentemente, e del Mondo. Progettare una trilogia è stato sicuramente un azzardo; dico azzardo perché spesso non sai se realmente tutto si possa far nascere, per quanto ci si impegni il dato del mercato difficilmente collima con la visionarietà. Si parla di produzione, invece di creazioni… E in questo strano modello in cui c’è una certa bulimia del fare, è arrivata la possibilità grazie a Ruotalibera Teatro di poter stare nella creazione di un qualcosa che avesse un respiro maggiore, un lungo tempo di cammino; ecco, viaggiare con lentezza e poter assaporare le tre tappe ideali con tutta la professionalità - e mi permetto - l’amore che occorre perché qualcosa nasca. Con la trilogia ho avuto modo di codificare ciò che mi interessa muovere e indagare: l’autobiografia e l’infanzia, argomento della mia tesi di laurea che finalmente dal teorico ha avuto una pratica.
I primi due capitoli: Piena di Vita e Nella Pancia di papà
indagano il rapporto sulle misure come unità di grado. Nel primo, Vita,
la protagonista, osserva il piccolo, il grande e il gigante da un punto
di vista strutturale e materico, in una riscrittura oserei femminista
di Pollicino, in cui una bambola in carne e ossa, Givotta, accompagna la
strana avventura di Vita in un viaggio onirico fuori dal sé del reale,
per ritrovarsi a scoprire cos’è la memoria dell’infanzia, quando un
evento ci rende grandi, giovani adulti, e si può attingere al proprio
bagaglio esperienziale infantile per avere un paradigma di destino per
affrontare il presente.
Nella Pancia di papà è il viaggio iniziatico alla femminilità, un lupopadre che si fa buio permette, grazie alla sua morte, di iniziare la Figlia Rossa (Cappuccetto) al vedere la vita come non è dato ad altri esseri. Qui la misura non è giusto/sbagliato, buono/cattivo, quanto Luce/Ombra in una dualità speculare tra lupo e bambina. Così cattivo/cattività, Femmina/Maschio, Terra che genera e Terra che inuma, danzano tra i corpi delle attrici. Se Piena di Vita ha nel logos e quindi nell’animus il suo principio, qui l’anima e il corpo cercano un nido in cui il ventre materno è il Teatro, in un’idea di genitorialità altra dall’eteronormatività. Lo stato selvatico che Rossa scopre è un essere nella natura, più specie umana che abitante di una certa civiltà. Quando torna dal bosco, Rossa non è la bambina della favola, è la donna che racconta a chi la vede un pezzetto della sua storia personale ed è qui che individualità e universalità si incontrano.
Puoi anticiparci qualcosa della terza produzione, "Bianca"?
Questo Terzo capitolo si apre ai piani dell’esistenza e quindi al rapporto tra umano e divino, tra persona e idolo. Bianca è un femminile che sta per nascere, si trova in quello stato della coscienza in cui, date le nuove teorie quantistiche, siamo un tutt’uno con la Fonte. La Fonte è Divino, Dio, La Dea, quell’entità che genera al di là della procreazione, da cui tutto nasce e ritorna. Bianca si fa e si determina in dialogo con due Angeli al venire al mondo, viene preparata all’esistenza, a rompere lo specchio delle brame terrene, conoscendo e scegliendo coloro che la cresceranno, due creature, è il due che interessa, non il nominare padre e madre. È una costruzione in cui la misura si osserva con l’osservazione temporale Anno 00:00, Anno 11:11 e così via, fino ad arrivare a quella sequenza che permette il salto, il parto. Bianca non è sospesa in un spazio del non essere, sogni e immaginazione sono il reale a cui ci concediamo di tornare e di stare se vivessimo come fanciull*. L’Ultraterreno, l’extraterrestre è tale se lo consideriamo come fuori dal Mondo, ma se ci trovassimo nell’origine delle cose anche noi saremmo extra o ultra, ma questa “definizione” non fa di Bianca una Wonder Woman, bensì una bimba piena dell’Essere, una fanciulla che possa ricordare a chi la osserva che tutto è relativo al punto dell’osservatore, e che quell’immagine e somiglianza di, quella buddhità... non è ideologia, è la Natura del corpo, o meglio di quei corpi che fanno di noi materia umana, massa energetica tangibile, desiderio e istinto, sorriso e lacrima, cervello e mente.
In generale, a livello di bilancio a questo punto del tuo percorso, qual è il bagaglio concettuale e di esperienze CON e SULL'infanzia a cui attingi mentre lavori come regista di teatro infanzia?
Il leggere credo sia il tessuto a cui attingo di più. Leggere non è soltanto una funzione di conoscenza o di ozio, leggere è una parola la cui etimologia dice legĕre (raccogliere), questa raccolta è quello che in ideale si prefigge il mio teatro, occuparsi dell’infanzia è un lasciar cadere dei semi che chissà se il “giardiniere” vedrà fiorire; a differenza dell’orto che sopravvive alla visione di chi lo cura o di chi incidentalmente lo osserva, il teatro appare e scompare nel tempo della rappresentazione e il suo seme non è l’opera in sé bensì la lettura intima, l’esperienza vissuta che potrebbe germogliare anche dopo decenni dalla visione. Il teatro per me è questo, non un indirizzare coatto all’educazione intesa spesso come emancipazione dell’altro, ma come un terreno su cui seminare, togliersi dal risultato del messaggio, ma stare nell’incontro con quella determinata comunità, spogliarsi dell’orgoglio a cui tanto teatro ragazzi fa l’occhiolino, avere pensiero, avere un corpo che possa farsi traduttore di segni. Nessun trono da cui vaticinare, ma chiudere gli occhi, fare silenzio e ascoltare.
Questo è per me leggere e quindi fare. Quando leggo ascolto il poeta, i personaggi ma soprattutto ascolto la mia voce, quella voce non posso fare finta che non esista, e quando lei mi parla il più delle volte si fa visione, palpitazione e poi teatro. In queste mie parole c’è la consapevolezza di avere un grande privilegio, che spesso non si fa economia del quotidiano, ma di un qualcosa che assume il Valore della Vita stessa. Osservare me stessa e l’infanzia che incontro, mi ricorda, mi sospende, mi accelera, mi interroga, mi inchioda a guardarla la Vita, a non girare la testa, a sentire il morso della rabbia, la disperazione dell’abbandono e anche il rosso sulle guance accaldate dalle corse, il sangue sulle ginocchia, il gelato sulla maglietta, l’essere o non essere declinato in mille perché, a togliermi dai però e a stare nel come delle cose.
Cora Presezzi
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