Oggi, nella nostra rubrica "Due chiacchiere", un nuovo e graditissimo ospite ci racconta qualcosa di sé. Si tratta della Compagnia GalloSansone e, in realtà, le ospiti sono due.
Dopo esser rimaste a bocca aperta per Bella e Bestia, l'ultimo lavoro teatrale delle due giovani artiste - una produzione Ersilio M di cui avevamo parlato qui -, abbiamo voluto sbirciare dietro le quinte. Rispondono alle nostre domande Flavia Gallo e Fiona Sansone.
Dopo esser rimaste a bocca aperta per Bella e Bestia, l'ultimo lavoro teatrale delle due giovani artiste - una produzione Ersilio M di cui avevamo parlato qui -, abbiamo voluto sbirciare dietro le quinte. Rispondono alle nostre domande Flavia Gallo e Fiona Sansone.
Innanzitutto, due parole su chi è la Compagnia GalloSansone...
La nostra Compagnia è composta dalla regista e drammaturga Flavia Gallo, dalla regista e narratrice Fiona Sansone e dai maestri compositori e polistrumentisti Ivano Guagnelli e Alessio Contorni (Mood). Nasciamo nel 2011 per creare l’ensemble che metterà in scena nel 2012 La Parabola della Croce storta, il nostro lavoro d’esordio prodotto dall’Associazione Ersilio M. la cui direttrice artistica è Sabina de Tommasi. In scena, tra gli altri, c'erano Chiara Lombardo, ora protagonista con Fiona di Bella e Bestia, e Chiara Cavalieri, che presta la sua voce alle "presenze" del castello. La Compagnia porta “responsabilmente” i nostri due cognomi.
È la prima volta che vi misurate con il teatro per bambini? E che cosa vi ha guidato, delle vostre esperienze personali e lavorative, nella realizzazione di questo progetto?
Il nostro teatro si basa su una ricerca profonda e mai maliziosa di chi è “bambino”: αιων παις παιζων πεσσευων παιδος η βασιληιη - il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi; il regno di un fanciullo (frammento di Eraclito). Il gioco è simbolo del mondo nel senso che in esso si esprime il modo che l’essere umano ha di intrecciare relazioni. Nel gioco, infatti, anche in quello del fanciullo più solitario, insiste un orizzonte di coinvolgimento degli altri, vi è qualcosa che ha a che fare indissolubilmente con il suo destino. È in questa relazione, tra me e non-me, tra sono e sarò, che vi è la possibilità di un movimento, di una bellezza, lo spunto per accogliere le diversità straniere e ammetterle come emblema di tutto ciò che noi non siamo. Queste cittadinanze possibili vanno offerte ai bambini di oggi che siedono attorno a quel grande braciere d’immagini che è il teatro.
Le fiabe sono un po' il vostro pane quotidiano, ma che cosa si scopre della fiaba quando arriva a teatro? E che cosa si scopre della fiaba riscrivendone una?
Il mondo della fiaba è un contenitore simbolico ed espressivo, potremmo definirlo un luogo di conoscenze infisse sulla tavola del tempo e dell’esperienza umana. A teatro, sia per chi ascolta e vede sia per chi narra ed agisce, la voce e il corpo in movimento sono i territori dove prendono forma quelle funzioni proprie degli schemi narratologici cari a strutturalisti come Propp; la voce ed il corpo in movimento assieme alla luce e alla musica sono gli elementi universali vivi delle vicende fiabesche trasposte sul palcoscenico.
Chi racconta una fiaba con i mezzi del teatro deve dunque scegliere o espellere dalla visione qualcosa, al fine di scandire le tappe di un viaggio fatto di inizio, sviluppo e fine. Una conclusione “sensata” non può mancare perché ne va del significato di un mondo che è fatto per istruire l’essere umano alla vita. Ma il teatro, a differenza della fiaba scritta, fornisce al bambino un simulacro dinamico, una figura visibile in movimento e compresente, un corpo da “prendere” con gli occhi, un altro da sé a cui affidarsi con lo sguardo, con cui comprendere e di cui compatire le gesta. Vedere, sentire, conoscere, amare: non è solo un contenuto ma è il paradigma del nostro modo di porre la parola e l’azione in scena.
Potete dirci due parole sul progetto all'interno del quale questo spettacolo è nato e in che modo ha influenzato il vostro lavoro far parte di quel contesto?
PORTARE A VEDERE è un progetto-modello di “promozione/formazione del pubblico” voluto dal Teatro di Roma e pensato da Giorgio Testa e dal gruppo Centro Teatro Educazione, ora Casa dello Spettatore, realizzato nei mesi novembre-dicembre 2012 presso i teatri Quarticciolo, Tor Bella Monaca in collaborazione con Centrale Preneste.
L’idea di base consiste nel condurre passo passo un gruppo di spettatori all’interno della creazione artistica di tre spettacoli per ragazzi legati al tema della fiaba e analizzare con loro alcuni temi precisi. La grande possibilità di questo progetto è l’occasione che soggetti che difficilmente riescono a dialogare si incontrino e ragionino modalità ed effetti rispetto ad un unico obiettivo: la formazione dei bambini.
Incontrare, prima e dopo lo spettacolo, maestre operatori ed educatori, genitori e parenti, ovvero tutti coloro che, a diverso titolo, concorrono all’educazione dei bambini, e soprattutto aver avuto la possibilità di parlare con gli piccoli spettatori, ci ha dato idea di cosa sia l’aspettativa di una narrazione, di cosa sia il pregiudizio su un tema, del modo in cui la pre-conoscenza di una storia agisca sull’ascolto, del modo in cui la cultura delle immagini televisive sia imperante e costituisca una sorta di potenza colonizzatrice dell’immaginario. Abbiamo imparato che con i bambini si può affrontare qualsiasi argomento, a patto che la cura del “come” questo avvenga sia assoluta, tenuta in considerazione come la più alta e degna sfida dell’intelligenza autoriale. Il Teatro Infanzia non è teatro di serie B ma è teatro per eccellenza, perché si rivolge al cittadino che verrà ed ha come obbiettivo di fondo l’attivazione di un potere che immetta il bambino nella res pubblica e lo renda a tutti gli effetti destinatario privilegiato di comunicazioni pubbliche.
Fiona, la tua scelta attoriale si colloca in bilico tra l'aedo antico, il mimo e la danza: questa contaminazione di linguaggi rende il tuo Amore/Cupido una porta d'accesso speciale al mondo della narrazione. Ci racconti come nasce questo personaggio?
Quando abbiamo iniziato il lavoro di sala c’è stata subito chiara una cosa: un narratore di tutta la vicenda doveva collocarsi nel punto di intersezione tra le diverse scritture della stessa fiaba che si sono avvicendate per secoli. Lavorare su La Bella e la Bestia andava incontro all’esigenza, sentita da tempo dalla nostra Compagnia, di ragionare sull’educazione sentimentale dei bambini e dei ragazzi che quotidianamente incontriamo. Rintracciando la prima “Bestia” dell’Occidente, il dio Amore de Le Metamorfosi di Apuleio, abbiamo pensato di oltrepassare i confini culturali di questa figura: Amore è un dio/dea appartenente a tutto il mondo. Così il nostro Amore ha preso vita nella forma di un piccolo aviatore alato dai mille nomi, un ramingo che abita temporaneamente le fiabe e le narrazioni umane.
Studiando “accademicamente” questo personaggio si scopre che con l’Aedo ha in comune la cecità e la facilità di comunicare con il divino dionisiaco dell’entusiasmo, l’essere “accesi” da cui la scelta di coprire il mio corpo attoriale con un trucco color oro, segno di divinità, del fuoco sacro nei racconti orali e di quella gioia propria dei bambini che scoprono il mondo. Ma il viaggio di un attore è sempre un viaggio personale: per la prima volta mi è stata data la possibilità di mettere a frutto tutto ciò che mi ha formata in questi trentun anni di vita: la danza, il conservatorio, il grandissimo amore per le opere teatrali. E poi i Greci: questo spettacolo è basato sulla rhesis greca, sul modello recitativo antico per cui l’attore doveva essere colui che aveva una completezza nelle arti. La grande ironia, la strategia di dissimulazione del proprio pensiero che pervade il mio personaggio, credo abbia costituito il punto di incontro tra gli studi classici e la mia biografia. Infine sperimentare, giocare ad essere un dio, mostrare il doppio del genere, essere il messaggero, “l’Angelo” per molti dei bambini che hanno visto lo spettacolo, che porta nella parola le lezioni d’amore e di vita, muovono da un orizzonte pedagogico sempre presente.
Flavia, ci racconti qualcosa sulla scelta della drammaturgia in rima e su come avete lavorato alla scrittura scenica di questo testo che colpisce per la sua alternanza tra poesia e "sdrammatizzazione"?
Ho scelto di scrivere in versi perché credo che la poesia appartenga ai bambini, anche quella che noi giudichiamo essere più ostica. La rima suggerisce l’idea che la lingua sia qualcosa che si trovi molto vicina alla musica di quel che crediamo e che parlare sia qualcosa di molto più simile ad un uso sapiente del corpo: questo è infatti letteralmente impregnato di parola. La scelta di innalzare il registro linguistico ha reso possibile una connessione autentica con il corpo attoriale che deve essere e non dire semplicemente la parola nell’istante del suo pronunciamento. Contrastare la svendita al ribasso della nostra lingua è una sfida civica essenziale: laddove la lingua decade il pensiero precipita. Se un bambino non comprende una parola e ne chiede il significato è una richiesta accolta da noi come una sorta di miracolo, come una reazione al non sapere che noi adulti dovremmo sempre sperare.
La popolazione migrante in Italia ci sta dimostrando come la nostra lingua possa essere rivitalizzata dall’interno per opera dei nuovi parlanti che, abitandola, la riscoprono e la offrono ad un inedito ascolto. Sdoganare i significati più importanti della spettacolo, attraverso un lavoro di raffinamento della lingua, ci ha permesso di incontrare un pubblico di piccoli multietnico e plurilingue. La poesia è la porta originaria della conoscenza, ci fa comprendere per emozioni. E se proprio non si capisce, dice la grande artista Maria Lai, c’è sempre la possibilità di seguire il ritmo.
Un’ultima osservazione sulla risata: sì, Bella e Bestia fa ridere. E questo per via della natura della Bestia stessa che quando non ci terrorizza è buffa, e perché ridere è insieme potenza distruttrice e costruttrice di cui Amore si serve per attraversare l’intera vicenda senza inciampare sui luoghi comuni dei sentimenti.
In sala, dalla parte del pubblico, si percepiva un'attenzione vigile sia da parte dei bambini che da parte degli adulti presenti: qual è l'ingrediente che rende un testo in grado di comunicare a un gruppo così differenziato (dal punto di vista in primo luogo anagrafico) di spettatori?
Io credo che chi riscrive una storia stipuli un vero patto con chi l’ascolta: questo accordo solenne firmato dall’autore ha come destinatari coloro che si trovano a far parte di quella straordinaria compagine compresente e democratica che prende il nome di “pubblico”. Bella e Bestia rispetta il patto narratologico di fondo: esiste la Bella che vorrebbe amare ed esiste la Bestia deve riuscire a farsi amare, ad ogni costo: ne vale del senso stesso di un mondo fatto per istruire alla vita. Ma, allo stesso tempo, Bella e Bestia viola questo patto a più livelli: la Bella non è la virtuosa piena di grazia e di beltà, ma è una piccola giardiniera che sogna il suo principe come tutte le adolescenti, è una un po’ “strana” che arriva da un altro paese e, per quanto si sforzi, non riesce ad essere proprio lo stereotipo classico del femminile colto ed elegante; la Bestia, d’altra parte, non si vede ma “si sente”, è un simulacro da intercettare, si trova nascosta da qualche parte e, non offerta alla visione, muove ed attrae verso di sé tutta la storia. L’assenza rende desiderabile la sua immagine oscura e per questo multiforme, cangiante, sospesa nella trepidazione. Questo equilibrio tra rispetto della schema narrativo e violazione dello stesso ha rimesso in questione l’intera fabula sottraendole l’ovvietà di molti dei suoi esiti conosciuti in veste disneyana, ed ha messo tutti, grandi e piccoli, ad attendere che qualcosa dall’oscuro arrivasse.
Abbiamo sentito una mamma dire: «mio figlio aspettava con ansia che arrivasse la Bestia, che alla fine non c'era». Chi è la bestia nella vostra lettura di questa fiaba antica?
Alcuni bambini hanno pianto, altri si sono tenuti agganciati alla sedia nell’attesa insopportabile di una figura che non arrivava mai e quindi incontrollabile; altri hanno giurato di averla vista aggirarsi dietro le quinte durante lo spettacolo, molti l’hanno vista dentro allo specchio, alcuni hanno detto: “la Bestia era dentro la Bella!”, altri ancora: “la Bestia eravamo noi bambini”. Per un’autrice questa gamma di risposte è un risultato più che desiderabile.
Dopo il Teatro India, quale futuro per Bella e Bestia?
La nostra Compagnia ha già incontrato migliaia di spettatori con Bella e Bestia. Speriamo di poter dare ancora fiato a questo lavoro, di poterlo vedere sui palcoscenici di altre città, per capire se la nostra Bella di Tor Bella può dimorare in altri luoghi; per capire se la nostra Bestia può nascondersi e velarsi dietro le tende e le vite di altri piccoli del nostro Paese.
In Italia manca un vero apprendistato affettivo, manca un’autentica, adulta, ragionata e aconfessionale educazione sentimentale, trasparente ed immaginifica, che ci insegni a riconoscere la Bestia e, come direbbe Calvino, a non accettare le sue condizioni dandogli in pasto i nostri figli, a non abitare la solitudine credendoci tranquilli solo perché è resa inoffensiva da una spina nella zampa.
L'eroe della storia, ci ricorda Calvino, “è colui che nella città punta la lancia nella gola del drago, e nella solitudine tiene con sé il leone nel pieno delle sue forze, accettandolo come custode e genio domestico, ma senza nascondersi la sua natura di belva.”
Ringraziamo le nostre ospiti per questa bella chiacchierata augurando loro buon lavoro e, secondo il gergo del mestiere, tanta tanta me..a!
Le foto di scena di Bella e Bestia sono di Fotografia '60 / Ilenia De Felice, Fabrizio Spano
L'illustrazione della locandina è di Federica de Ruvo
La scheda tecnica dello spettacolo a questo link: http://ersilioemme.blogspot.it/p/bella-e-bestia.html
Cora Presezzi
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